mercoledì 2 novembre 2016

Perché hai scelto di fare il servizio civile? Flavio: "Perché mi rende felice"

Alla domanda “Perché hai scelto di fare il servizio civile?” le soluzioni al quesito possono essere infinite. Sicuramente, la risposta cambia a seconda della persona interrogatrice. Se a porla è un amico poco addentro al settore, risponderò: “Perché si conosce un sacco di gente nuova e si vive un’esperienza che…quando ti ricapita?!” teorizzando e praticando dunque “la banalità al potere”. Se invece a rivolgermela è qualcuno già conoscitore dell’ambiente, risponderò: “Perché, oltre al classico <<aiuto gli altri>>, posso crescere professionalmente. Perché poi lo sai che tutte le Ong chiedono almeno un anno di esperienza>>”.
Ma non regge questa spiegazione. Né questa, né qualche altra. La verità è una e una sola: non c’è un perché. O meglio, ce ne sono così tanti che alla fine ti sembrano banali, scontati e, in fondo, non veritieri. Si parte semplicemente perché...si è matti. Sì, è questa la realtà: se lasci il lavoro, gli affetti, la tranquillità, la routine non sei un eroe, probabilmente sei uno un po' sopra le righe. Un matto. “Curioso” potrebbe essere il diminutivo di questa interpretazione della parola, ma chi parte ha già raggiunto un livello superiore. Sei matto per il mondo, sei matto per la gente, perché la vuoi toccare, abbracciare, litigarci vis à vis. Non vuoi stare dove sei e brami per andare giù, in un mondo che non conosci, ma che ti affascina da morire. E già ti vedi sull'aereo, e già ti vedi lì in mezzo, immaginandoti volti, colori e situazioni (e restando, nella maggior parte dei casi, totalmente disilluso). L’Africa, il Sud America, sono solo stati della tua mente folle, che non riesce a ragionare, a concepire un mondo di limiti e barriere, un mondo finito. Se dovessi pensare a un minimo comune denominatore tra i civilisti, penserei all'incoscienza.
Potrebbe sembrare, da quanto scrivo, che - aggettivandomi in questo modo – voglia “farmi bello” agli occhi del lettore. No, assolutamente il contrario forse: chi parte non è coraggioso, non è fico e non è più sensibile degli altri. In moltissimi casi è un vigliacco che scappa e che non ha voglia di legarsi a una sola persona. Si potrebbe quasi definire un insensibile. Proprio perché non riesce a mettere barriere e lacci al suo corpo. Soluzioni diverse si potrebbero cercare: se solo si avesse coraggio, appunto, si potrebbe costruire la propria vita tentando di rimanere liberi, ma non per questo evitando di assumersi le proprie responsabilità, soprattutto nei confronti degli altri. Invece il civilista è il tizio che se la canta e se la suona, che mette davanti una serie di fandonie pur di non prendersi responsabilità. Sta così, vaga per il mondo alla ricerca di se stesso, o meglio: per scappare da se stesso. Peccato sia un processo teso all'infinito.

E allora ecco, a questa domanda non posso rispondere. Cambiando quanto scritto all'inizio, non posso rispondere non perché non vi sia un perché, ma in quanto il mio perché implicherebbe una serie di analisi su me stesso che, da evaso della vita, temo orribilmente. L’unica parola, frase, stato d’animo che, a pensarci, ha forse la capacità di far quadrare il cerchio potrebbe essere la felicità. Ecco, se ripenso ai miei periodi trascorsi all'estero impiegato come volontario, mi rivedo felice. Ero felice, davvero. Non si aveva nulla, nella maggior parte dei casi toccavi e vedevi cose schifose. Eppure avevamo tutti una energia vitale incredibile. Nascevano infatti legami, affetti, amori indissolubili. Qualunque preoccupazione o ansia che ci aveva perseguitato e attanagliato sino a quel momento, nel nuovo mondo non esisteva, scompariva, come fosse niente, come ci si fosse improvvisamente resi conto di quanto era niente. Ricordo le lacrime di gioia, ricordo i volti di tutti. Mi vedo felice.
L’altra immagine è del ritorno. Facilissimo essere risucchiati nuovamente nella routine tanto dileggiata e, di conseguenza, riacquisire tutte le ansie perdute e dar loro di nuovo un peso che non meritano. E ti dimentichi di quando eri felice, hai qualcosa di meglio da fare che dirti “Come sono fortunato”, come se essere felici non fosse abbastanza importante.
Poi leggi di un bando, di un nuovo progetto, di un’esperienza di volontariato. I ricordi tornano alla mente, la felicità si riaffaccia. Ti rivedi felice, tu che in quel momento vorresti piangere. E allora addio ai perché e alla razionalità, che si liberino le gabbie al folle. Si torna a ridere!  

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