martedì 27 novembre 2018

La missione

Se pensate di partire ed essere dei turisti che si mettono ad esplorare il paese o dei volontari che devono fare solo per dare agli altri, vi state sbagliando alla grande!
Se pensate di partire per andare a salvare il mondo perché state andando in Africa tra i poveri o perché potete aiutare quelli meno fortunati di voi, anche qui non fate che sbagliarvi.
Se soprattutto pensate di partire pieni di aspettative o con la certezza di trovare risposte alle tante domande che vi ponete o ancora volete andare a realizzare i vostri sogni, siete sempre nella direzione sbagliata.
Il servizio civile è semplicemente l’occasione di vivere dodici mesi di vita in una realtà totalmente diversa, ma sono dodici mesi della TUA vita che fanno la differenza se vissuti a cuore aperto.
Sono partita ed arrivata in terra africana con l'entusiasmo di 'voler fare missione'. Giorno dopo giorno sono poi però iniziate le difficoltà. Subito ho abbandonato l'idea di 'voler fare missione' iniziando a vivere semplicemente come facevo in Italia. Negli ostacoli e nei pianti, nelle sorprese e nell'Amore ho poi capito che non dovevo solo concentrarmi sul 'voler fare' ma piuttosto fare quello che sentivo e lasciare che la missione mi plasmasse.

Passo dopo passo, anche se lentamente, ho iniziato a scoprire e conoscere, incontrare gli altri e rincontrare me stessa. Passo dopo passo ho sentito come il Signore mi sia sempre stato accanto e come ogni giorno mi dia le forze per vivere al meglio questa avventura che è la vita.
Ho capito che il mio 'voler fare missione' non era altro che puro egoismo per ricevere in cambio riconoscenza; ma il Signore vede ciò che facciamo senza che qualcuno debba mostrarci ogni volta gratitudine. Ho capito che il mio 'voler fare missione' non era altro che l'entusiasmo del partire e andare verso l'Altro, senza offrire all'Altro, davanti a me e diverso da me, l'opportunità di venirmi incontro. Ho capito che il mio 'voler fare missione' era vero e sentito, ma anche un po' sporco perché pieno di 'voglio'.
Ed è stato negli abbracci profondi con le persone, nei sorrisi grandi e negli occhi vivi e illuminati dei bambini, nelle mani che non ti lasciano, nei piedi che camminano al tuo fianco, che ho trovato il vero ossigeno del cuore della foresta equatoriale.
Un’aria diversa che ti fa battere il cuore quando vedi gli occhi di un bambino felici di tornare a scuola per rivederti e correrti incontro scendendo dallo scuola-bus e abbracciarti, per ricominciare assieme il Centro d’Accoglienza e poter giocare e ridere con Tata Ilaria.
Ti fa battere il cuore quando, nonostante la difficoltà di due metodi educativi e due modi di pensare differenti, riesci a trovare un punto d’incontro con gli educatori di Villaggio Fraternité e assieme a dar vita a qualcosa di nuovo e specifico per undici bambini di uno o due anni.
Un’aria diversa che ti fa battere il cuore quando i pianti dei piccoli della pre-maternelle si trasformano in sorrisi e gioia di voler stringerti la mano per camminare al tuo fianco; quando cantano contenti le canzoncine per andare in classe, quando si buttano tra le tue braccia urlando “NTOOO” (che nella lingua locale, il Bulu, significa “abbraccio”) o ancora quando imparano a dire “presente”, a chiedere “per favore” e dire “grazie”. 
Ancora, quando vedi qualcuno star molto male e con una semplice visita a casa e stringendole la mano riesci a donarle un sorriso e la forza per riprendersi.
Ti fa battere il cuore quando i bambini del Centro d’Accoglienza ti chiedono se il laboratorio di scrittura creativa ricomincia anche quest’anno e se arriverà presto il libro che hanno creato.
Un’aria diversa quando sperimenti sulla tua pelle la grandezza della Fede che va al di là delle diversità religiose e apre le braccia a tutti indistintamente, che fa incontrare cristianesimo e islam in un unico grande amore, testimoniando come questo sia unico immenso dono di Dio, superando ogni pregiudizio. 
E allora, non c'è gioia più grande, non c'è sorriso più vero, non c'è amore più reale di quello di aver capito che non bisogna voler 'fare missione' perché la missione si fa da sé, perché la missione si vive, perché è la missione che fa la persona.
Ilaria Tinelli

lunedì 26 novembre 2018

La scelta

Un anno fa ho deciso di rivoluzionare la mia vita e di mettere tutto in gioco, la mia stabilità lavorativa e sentimentale, per partire, per vivere questa esperienza di Servizio Civile. Ora, un anno dopo, mi trovo davanti a un foglio bianco per fare il bilancio di questa mia scelta. Non penso di riuscire a raccontare a parole o scrivendo tutto quello che questo anno mi ha dato, penso che sia un tipo di esperienza che vada vissuta per essere davvero capita.
Sono a casa da una settimana, forse ancora troppo poco per riuscire a capire davvero quanto questo anno in Cameroun, a Sangmelima, mi abbia profondamente cambiata. È ancora tutto così fresco e così vicino.

Mi sembra ancora di sentire le voci dei bambini che arrivano a scuola e mi svegliano al mattino o il rumore delle tazze, mentre la mia compagna di avventura Francesca ci prepara la colazione.
E invece no, è davvero tutto finito. Il mio nuovo mondo, che mi ero creata lontano da casa, non c’è più e ancora una volta bisogna ricominciare nel grigio di Milano, con i colori e il calore della terra africana che ho tanto amato, ormai solo nei miei ricordi.
Quello che ad oggi posso affermare con certezza è che rifarei ancora mille volte la scelta di partire. In questo anno mi sono riscoperta, ho imparato a lavorare con i bambini e ad amarli.
Sono proprio loro che, con la loro ingenuità e il loro affetto, non mi hanno fatto mancare i legami che avevo a casa.
Ho conosciuto una nuova cultura e questo arricchisce sempre. Non è stato facile relazionarsi, ma anche questo mi ha fatto crescere, capire come relazionarmi con le persone e a che livello concedere la mia fiducia. 

Ho imparato ad apprezzare i ritmi di vita africani e ad adattarmi alla loro tranquillità e leggerezza con cui prendere la vita. “Villaggio Fraternité” è stata la mia casa in questo anno e una parte di me e del mio cuore credo resterà lì.
Voglio approfittare di questo articolo e ringraziare tutti: lo staff locale, i bambini, i miei Chefs e le mie compagne di avventura perché senza di loro non sarebbe stato lo stesso.
Si parte con tante aspettative, con la voglia di lasciare il segno e, almeno nel mio caso, si torna con molta umiltà.
Non so se ho lasciato qualcosa e se i miei bimbi si ricorderanno di me crescendo, quello che però posso dire è che questa esperienza a me ha lasciato tanto.
Ora è tempo di ricominciare, ma voglio partire proprio da qui, provare a restare nel mondo della cooperazione internazionale e continuare a crescere con nuovi progetti.

Jessica Valerani

venerdì 23 novembre 2018

Il coraggio


Se i primi sei mesi di Servizio Civile è stato faticoso e difficile adattarsi, gli ultimi sei si sono susseguiti uno dopo l’altro senza che nemmeno me ne rendessi conto. Le due settimane trascorse in Italia durante il rientro di metà servizio mi sono servite per fare una sorta di bilancio della prima parte della mia esperienza. Sono quindi tornata a giugno carica e pronta a mettermi in gioco ancora di più, spinta da quella sensazione di aver lasciato indietro delle cose, e che quella sarebbe stata l’ultima opportunità per farle. Per raccontarle tutte non basterebbe un articolo.

Concludo il mio servizio Civile con la consapevolezza che forse non avrò lasciato una grande impronta a livello progettuale, ma so di averla lasciata nel cuore di alcuni. Di Giovanni, che adesso viene a cercare la sua maestra d’inglese dicendomi “Tata, Tata, Sono arrivato primo della classe!”; di Flora, che nonostante sia già al liceo, ogni volta che vado a portarle un libro mi saluta con un dolcissimo abbraccio; di Ma’a Marie , che mi vuole bene come se fossi sua nipote; di Bernadette e Benjamain, che ogni volta che vado a far loro visita hanno sempre un piatto pronto per me. So che tutti loro e altri, si ricorderanno sempre di Tata Francesca. Ma ciò di cui non si rendono conto è di quanto loro hanno trasmesso a me e che per questo li ringrazierò per sempre. Mi porterò sempre nel cuore quello che mi hanno insegnato, per esempio a vivere la vita con più leggerezza e coraggio.

Ho anche acquisito un’altra consapevolezza, ovvero che il Cameroun è un paese che ha compreso quanto l’educazione sia importante per crescere un popolo in grado svilupparsi. C’è ancora molto lavoro da fare in questo senso e Villaggio Fraternité, in una piccola comunità come quella di Sangmelima, rende possibile a dei bambini, che altrimenti non ne avrebbero la possibilità, di diventare dei giovani intelligenti e responsabili. Sono orgogliosa di aver dato il mio contributo, anche se minimo, a questo progetto.


Negli ultimi giorni a Villaggio mi sono sentita avvolta da un forte sentimento di nostalgia. Mi sono resa conto che non vedrò i bimbi della materna passare dalla divisa rossa a quella blu della primaria, non andrò più a fare la spesa al mercato di Sangmelima, non sarò più in ufficio pronta a dare una matita a chi ha già finito la propria e non vedrò più il prugno davanti casa carico di frutti. Villaggio Fraternité e Sangmelima sono state la mia famiglia e la mia casa in quest’ultimo anno e mi rattrista molto dover salutare quella che ormai era diventata la mia quotidianità.



 Spero che il mio saluto sia soltanto un “arrivederci, a presto”  e che di tanto in tanto avrò l’opportunità di passare a Villaggio e vedere come i bambini e i girasoli siano cresciuti e sentirmi fiera di ciò.

Francesca Bucaletti

mercoledì 21 novembre 2018

Il tempo

L’ultima volta che ho preso carta e penna per raccontare questa esperienza era maggio, a metà servizio. Mi sembra ieri eppure sono già passati sei mesi. Ho riflettuto su questa cosa e mi sono chiesta: “Perché da Dicembre a Maggio il tempo è passato così lento e negli ultimi sei mesi invece è come se il tempo non ci fosse stato?". 
Mi sono svegliata una mattina e ho realizzato che dopo una settimana sarei rientrata in Italia.

Il tempo è un concetto tanto astratto quanto indispensabile per l’uomo.
In tutto il mondo una giornata è fatta di ventiquattro ore, un’ora di sessanta minuti e un minuto di sessanta secondi; eppure nella quotidianità di ognuno di noi è così relativo!
Ci sono giornate che ti sembrano non finire mai e altre che passano senza che nemmeno te ne accorgi. Se questo è quello che succede nel nostro piccolo, la stessa relatività la possiamo trovare nel confronto di culture diverse.

In base all’esperienza di Servizio Civile che ho svolto quest’anno a Sangmélima, nel Sud del Camerun, posso azzardarmi a dire “Paese che vai, tempo che trovi”.
In Italia, forse in Europa, il tempo esiste indipendentemente dall’uomo e le attività dell’uomo sono scandite dal tempo. L’uomo dipende dallo scorrere del tempo: c’è un orario per svegliarsi, uno per mangiare, uno per dormire; appuntamenti fissati con il dentista, la parrucchiera, il commercialista. L’orologio è sul nostro polso e siamo ossessionati da quelle lancette che avanzano e ci ricordano che a quell’ora succederà quella certa cosa.

A Sangmélima non è così, a Sangmélima è il tempo a essere dipendente dall’uomo; è l’uomo che con le sue attività controlla e dirige il tempo. Il tempo si modella in base a ciò che l’uomo fa.


Ed ecco quindi che tu italiana, oltretutto proveniente da Milano dove le persone non solo sono dipendenti dal tempo ma lo rincorrono, ti trovi spaesata.
Sei al mercato e ti fermi a parlare un po’ con la signora che ti vende la verdura e lei al tuo arrivederci risponde “Aprés” (a dopo) e nella tua testa inizi a pensare “A dopo quando? Forse le ho detto qualche cosa di sbagliato in francese. Ma poi, dove ci dovremmo vedere dopo? A che ora? Non ho il suo numero di telefono per metterci d’accordo” e alla fine capisci che è solo un modo di dire “Ci rivediamo”, ma non è necessario stabilire il dove e il quando.
Vai al ristorante e ordini da mangiare. Dopo mezz’ora chiedi “Ma tra quanto tempo sarà pronto?” e la risposta è “È già pronto”. Il mangiare arriva poi dopo un’altra mezz’ora.
Hai un appuntamento con un amico alle tre e sono le tre e mezza, lo chiami per chiedergli dove si trova e lui ti risponde “Sono già là”, ti giri a cercarlo e non c’è. Arriva dopo un’oretta: stava riposando, era stanco. Sali sull’autobus e chiedi a che ora partirà. “Quando l’autobus sarà pieno”, è la risposta.

All’inizio tutto questo è snervante, ti arrabbi e loro nemmeno capiscono perché. È normale che il cibo arriverà quando sarà pronto, è normale che se sei stanco prima di uscire riposi un po’ ed è normale che l’autobus parta quando è pieno. E allora impari, non programmi niente nemmeno tu, non solo non ti arrabbi più per i ritardi ma senza accorgertene inizi ad arrivare anche tu in ritardo agli appuntamenti. Senza rendertene conto lasci scorrere il tempo proprio come fanno loro.

Grazie a questo il Camerun mi ha fatto vivere un sentimento di libertà, di tranquillità.
Noi occidentali vantiamo tanto le nostre libertà e nessuno mette in dubbio gli sviluppi che siamo riusciti a raggiungere in quanto a diritti dell’essere umano, emancipazione, libertà religiose ecc..
Ma la libertà di vivere tranquilli? La rincorsa al tempo ci impedisce di entrare in contatto con noi stessi, con i nostri limiti e i nostri desideri. Siamo ossessionati da una vita fatta di obiettivi da raggiungere e il presente ci sfugge dalle mani. E così ci ritroviamo tutti in analisi, stressati, sfiancati da una vita che non ci appartiene.


Tante cose mi hanno insegnato l’Africa, il Camerun, Sangmélima, ma l’unico insegnamento che non vorrei mai dimenticare è proprio questo: l’unico obiettivo della nostra vita deve essere la felicità e l’unico modo per trovarla è quello di non farci travolgere da aspettative e vivere sereni, senza essere condizionati dallo scorrere del tempo.
Anna Franzoni