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giovedì 27 febbraio 2020

Scoiattoli alle noci


C’è un vecchio film in cui il tizio dice alla fanciulla:
“... è strano, lei non sembra essere inibita… allora perché ha pensato di essere fuori posto? Nessuno può dirle qual è il suo posto... dove è il mio posto? Dove è il posto degli altri? Glielo dico io dove è. Dove lei è felice, lì è il suo posto.”

Ecco, posso dire che nella seconda metà del servizio civile, poiché le circostanze hanno fatto sì che l’esperienza procedesse secondo una direzione diversa rispetto a quella con cui era iniziata, mi sono interrogata diverse volte; dapprima per capire quale fosse il “mio posto” a Villaggio Fraternité, in quella piccola città a sud del Camerun (Sangmelima) e poi in generale se quel “posto” potesse essere nel mondo della cooperazione, che tanto mi aveva affascinato.
Per la seconda questione ho pensato di procrastinare momentaneamente la risposta, mentre per la prima ho deciso che la scelta migliore sarebbe stata quella di cercare di adattarsi, di essere flessibile e di trovare una nuova collocazione in quel contesto; ho perciò cominciato a correre (metaforicamente e letteralmente) ovunque ci fosse necessità e a svolgere qualsivoglia compito mi venisse assegnato, cercando di farlo sempre al meglio. 
A Villaggio avrei potuto fare certamente molto di più, ma poiché ho imparato ad essere un po’ meno severa con me stessa, posso dire che va bene così; in generale ho cercato di “profiter”: ho viaggiato “in solitaria” e in gruppo (adottata da dolcissime civiliste di un’altra ONG) e questo mi ha consentito di trarre il meglio sia dalla condivisione con altre persone che dallo star soli; in quest’ultima occasione ho scoperto una nuova sensazione di libertà. Mi sono lasciata trasportare da ciò che la realtà mi proponeva e ad un certo punto ho cominciato ad agire con più leggerezza, io che viaggio da sempre con pesantissime zavorre... e mi sono resa conto di questo piccolo ma grande mutamento che il Camerun aveva prodotto. Questo Camerun amato/odiato in un’altalena emotiva durata un anno.

È finita e come nei film alla fine sullo schermo nero scorrono i titoli di coda e i ringraziamenti alle persone che vi hanno partecipato.
Villaggio: un luogo speciale, una scuola unica e una vera e propria casa per tante persone, adulti e bambini.
La mia famiglia AVAZ a Roma e a Sangmelima. Gli chefs, amici e fratelli prima ancora che guide: hanno ascoltato i miei pensieri confusi e tentato di dare delle risposte; mi hanno sostenuto e supportato in plurime circostanze, mi hanno stimolato e attraverso conversazioni maieutiche mi hanno permesso di tirar fuori pensieri e riflessioni impolverati che per mia natura fanno fatica ad emergere; le loro splendide compagne hanno capito i miei complessi e le mie insicurezze e hanno “lavorato” in silenzio per ridimensionarli.
I miei piccoli coinquilini con cui sono cresciuta anche io, due bimbetti speciali che con abbracci e riflessioni “adulte” mi hanno conquistata (nonostante pianti e sveglie all’alba) e commosso, bussando al mio cuore duro.
Gli amici, alcuni dei quali sono diventati persone di cui mi sono fidata, io, sfiduciata per natura. Mi hanno accolta, integrata, aiutata ed io ho tentato di fare lo stesso nel mio piccolo.
Le mie sorelle: una ex volontaria, un’esplosione di carica, un arcobaleno dopo le piogge torrenziali camerunesi, diventata la complice che mi ha traghettato davvero fino alla fine (accompagnandomi in aeroporto) e una suora speciale, la compagna di viaggio degli ultimi sei mesi dal sorriso aperto e dalle braccia accoglienti, sempre pronta a dispensare consigli e adorabili quotidiane prese in giro. 
Chi si è affacciato sul percorso un po’ per caso, chissà...
Chi ha contribuito a farmi apprezzare questa cultura diversa, a farmi capire che non bisogna arrendersi anche quando tutto suggerirebbe di spegnersi.
Chi rimarrà nonostante le distanze.
A tutti loro va un sincero grazie!

Infine a chi mi chiederà nei prossimi giorni perché non si resta semplicemente in Italia, perché si parte per terre lontane, credo citerò sempre lo stesso vecchio film in cui il solito tizio dice che c’è gente che va al parco a dare noci agli scoiattoli perché farlo le rende felici. Ma alla fine, scoprire che ti rende più felice dare scoiattoli alle noci, va bene lo stesso.

Alessandra


martedì 9 aprile 2019

La vigilia della partenza di Icaro

Sono all'inizio di un percorso: sono al tempo stesso emozionato e incuriosito all'idea di andare in un continente dove non sono mai stato, di capire e conoscere le usanze, lo stile e il modo di vivere di un popolo che immagino abbastanza diverso da quello a cui sono abituato.
Mi presento: mi chiamo Icaro Becherelli e sono nato il 07/03/1990 in Brasile.
Io non ricordo molto della mia infanzia ma sono stato molto fortunato. La mia famiglia mi ha dato gli strumenti per scegliere e mi ha lasciato libero, sia che si trattasse di decidere che sport fare sia a quale religione appartenere. Nello stesso tempo, attraverso le esperienze che mi hanno fatto vivere, ho cominciato a capire quello che è giusto e quello che è sbagliato, valorizzando il mio punto di vista.
Indubbiamente, le scelte che una persona fa sono molto condizionate dal tipo di società in cui vive, da quello che la comunità offre e dall'ambiente che frequenta.
Il mio desiderio più grande è quello di contribuire ad una società che possa formare le nuove generazioni attraverso strumenti culturali, aiutandole ad avere un “pensiero libero”, libero di scegliere cosa vogliono davvero e di capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Secondo me è questo uno dei modi per far crescere le nuove generazioni con la consapevolezza di poter avere un futuro migliore.
Penso che l’Africa sia uno dei continenti più belli al mondo, anche se molti paesi hanno approfittato delle sue ricchezze attraverso le colonie e deportando in massa milioni di giovani rendendoli schiavi, impedendo uno sviluppo naturale di tutto il continente.
Da parte mia penso che svolgere attività di supporto, ai bambini, in un paese che ha sofferto così tanto possa essere una buona cosa e io la farò non solo applicando le competenze che ho maturato in oltre dieci anni in villaggi turistici in tutta Italia ma prevalentemente con il cuore.
Voglio essere sincero: io non sono un persona utopista che crede nella “pace del mondo” ma penso che se tutti noi dedicassimo una piccola parte del proprio tempo ad aiutare chi ha più bisogno vivremmo tutti meglio.
Non sottovaluto comunque le difficoltà che potrebbero nascere in questa mia esperienza: i primi tempi non sarà cosi facile integrami con il nuovo ambiente (non conosco la lingua, non ho mai vissuto in un clima tropicale e, non ultimo, il medico che mi ha fatto i vaccini mi ha presentato una situazione sanitaria difficile per un europeo). Inoltre, dovrò imparare a relazionarmi con un popolo con differenti tradizioni e usanze.
Quello con cui parto è tanto entusiasmo e la voglia di trasmettere la mia gioia di vivere e, perché no, la mia spensieratezza.
Non vedo l'ora di iniziare questa avventura: come dice una delle mie citazioni preferite “un lungo cammino, inizia sempre con un piccolo passo”.
Icaro Becherelli

martedì 2 aprile 2019

Alessandra racconta perché ha scelto di fare il Servizio Civile

Da anni pensavo alla possibilità di fare Servizio Civile all’estero, in particolare in Africa, e da altrettanti anni cercavo di mettere a tacere questa voce, dando spazio all’altra voce, quella più razionale che invece mi esortava a proseguire su sentieri battuti.
Malgrado non fosse la mia ambizione primaria, per diverse ragioni avevo deciso che l’ambito della ricerca (più consueto per una biologa), dovesse essere la strada più "giusta” rispetto a quella della cooperazione internazionale, che al contrario mi affascinava molto (e che un’esperienza come il servizio civile mi avrebbe consentito di conoscere da vicino, almeno per un anno). Avevo inoltre deciso di relegare ad un piccolo spazio della mia vita (il tempo libero per intenderci), l’attività del volontariato e più in generale lo spendersi per una giusta causa che invece mi aveva regalato tanti sorrisi.

Questa continua dicotomia interiore mi ha corroso per anni (e non poco), ma col senno di poi credo sia stata imprescindibile e in qualche modo propedeutica. Ho ripensato ai  momenti di felicità, a ciò che mi aveva fatto pulsare cuore, cervello e pancia, “sbrilluccicare” gli occhi e alle situazioni in cui le cose intorno a me si erano fermate per un attimo e aveva cominciato a risuonare nella mia testa quella canzone…
“Home - is where I want to be
But I guess I'm already there
[… ] Guess that this must be the place”
..tutti quei momenti erano legati all’attività di volontario (in Italia o all’estero) e quindi alla causa per cui stavo impiegando il mio tempo e le mie risorse e a ciò che era indissolubilmente legato a me. È allora che mi son detta che, dopo aver consultato un bravo psichiatra per via di quella canzoncina nella mia testa (scherzo!), avrei dovuto darmi l’opportunità di ripescare queste sensazioni e tutto ciò che aveva attivato il mio sistema emozionale e cognitivo e che semplicemente mi aveva fatto sentire viva.

Dopo una attenta ricerca per la scelta del progetto per cui fare domanda, ho ristretto il campo ad un paio di ONG ed infine sono approdata ad AVAZ a cui ho consegnato la domanda di servizio civile personalmente. Ho conosciuto parte dei responsabili, mi sono lasciata contagiare dalla loro genuinità ed affascinare dalla dimensione seria e familiare di una ONG attiva con grande impegno da circa 30 anni...  e non ho potuto fare a meno di (ri)pensare “this must be the place”.

Si sono poi succeduti: il colloquio (che google maps mi avrebbe fatto svolgere nella bottega solidale di AVAZ), la graduatoria (evvaiiii, sono dentro!) e il corso di formazione pre-partenza nel polo di Catania. Quest’ultimo ha rappresentato l’occasione di conoscere ragazze e ragazzi con tante storie e tanto coraggio, di incontrare casualmente (o causalmente) “affinità elettive” e di conoscere formatori (ma prima di tutto anime belle) dotati di grinta e competenze. Tutto questo mi ha trasmesso molta carica e mi ha permesso di riascoltare la stessa canzoncina nella mia testa... e soprattutto mi ha fatto pensare a quanto sia giusta quella frase che dice “la caverna in cui temi di entrare contiene il tesoro che cerchi”, al pericolo nel rimanere fermi, al coraggio delle scelte, alla forza dell’azione.

E... se il tempo non portasse via con sé anche elasticità e turgore della pelle, credo proprio che mi tatuerei sulla schiena e a caratteri cubitali qualche frase:
“Scegli il coraggio oltre il comfort.
Scegli cuori aperti invece di armature.
E scegli la grande avventura di essere coraggioso e impaurito. Allo stesso tempo” (Brené Brown).

Alessandra Adduci

martedì 27 novembre 2018

La missione

Se pensate di partire ed essere dei turisti che si mettono ad esplorare il paese o dei volontari che devono fare solo per dare agli altri, vi state sbagliando alla grande!
Se pensate di partire per andare a salvare il mondo perché state andando in Africa tra i poveri o perché potete aiutare quelli meno fortunati di voi, anche qui non fate che sbagliarvi.
Se soprattutto pensate di partire pieni di aspettative o con la certezza di trovare risposte alle tante domande che vi ponete o ancora volete andare a realizzare i vostri sogni, siete sempre nella direzione sbagliata.
Il servizio civile è semplicemente l’occasione di vivere dodici mesi di vita in una realtà totalmente diversa, ma sono dodici mesi della TUA vita che fanno la differenza se vissuti a cuore aperto.
Sono partita ed arrivata in terra africana con l'entusiasmo di 'voler fare missione'. Giorno dopo giorno sono poi però iniziate le difficoltà. Subito ho abbandonato l'idea di 'voler fare missione' iniziando a vivere semplicemente come facevo in Italia. Negli ostacoli e nei pianti, nelle sorprese e nell'Amore ho poi capito che non dovevo solo concentrarmi sul 'voler fare' ma piuttosto fare quello che sentivo e lasciare che la missione mi plasmasse.

Passo dopo passo, anche se lentamente, ho iniziato a scoprire e conoscere, incontrare gli altri e rincontrare me stessa. Passo dopo passo ho sentito come il Signore mi sia sempre stato accanto e come ogni giorno mi dia le forze per vivere al meglio questa avventura che è la vita.
Ho capito che il mio 'voler fare missione' non era altro che puro egoismo per ricevere in cambio riconoscenza; ma il Signore vede ciò che facciamo senza che qualcuno debba mostrarci ogni volta gratitudine. Ho capito che il mio 'voler fare missione' non era altro che l'entusiasmo del partire e andare verso l'Altro, senza offrire all'Altro, davanti a me e diverso da me, l'opportunità di venirmi incontro. Ho capito che il mio 'voler fare missione' era vero e sentito, ma anche un po' sporco perché pieno di 'voglio'.
Ed è stato negli abbracci profondi con le persone, nei sorrisi grandi e negli occhi vivi e illuminati dei bambini, nelle mani che non ti lasciano, nei piedi che camminano al tuo fianco, che ho trovato il vero ossigeno del cuore della foresta equatoriale.
Un’aria diversa che ti fa battere il cuore quando vedi gli occhi di un bambino felici di tornare a scuola per rivederti e correrti incontro scendendo dallo scuola-bus e abbracciarti, per ricominciare assieme il Centro d’Accoglienza e poter giocare e ridere con Tata Ilaria.
Ti fa battere il cuore quando, nonostante la difficoltà di due metodi educativi e due modi di pensare differenti, riesci a trovare un punto d’incontro con gli educatori di Villaggio Fraternité e assieme a dar vita a qualcosa di nuovo e specifico per undici bambini di uno o due anni.
Un’aria diversa che ti fa battere il cuore quando i pianti dei piccoli della pre-maternelle si trasformano in sorrisi e gioia di voler stringerti la mano per camminare al tuo fianco; quando cantano contenti le canzoncine per andare in classe, quando si buttano tra le tue braccia urlando “NTOOO” (che nella lingua locale, il Bulu, significa “abbraccio”) o ancora quando imparano a dire “presente”, a chiedere “per favore” e dire “grazie”. 
Ancora, quando vedi qualcuno star molto male e con una semplice visita a casa e stringendole la mano riesci a donarle un sorriso e la forza per riprendersi.
Ti fa battere il cuore quando i bambini del Centro d’Accoglienza ti chiedono se il laboratorio di scrittura creativa ricomincia anche quest’anno e se arriverà presto il libro che hanno creato.
Un’aria diversa quando sperimenti sulla tua pelle la grandezza della Fede che va al di là delle diversità religiose e apre le braccia a tutti indistintamente, che fa incontrare cristianesimo e islam in un unico grande amore, testimoniando come questo sia unico immenso dono di Dio, superando ogni pregiudizio. 
E allora, non c'è gioia più grande, non c'è sorriso più vero, non c'è amore più reale di quello di aver capito che non bisogna voler 'fare missione' perché la missione si fa da sé, perché la missione si vive, perché è la missione che fa la persona.
Ilaria Tinelli

lunedì 26 novembre 2018

La scelta

Un anno fa ho deciso di rivoluzionare la mia vita e di mettere tutto in gioco, la mia stabilità lavorativa e sentimentale, per partire, per vivere questa esperienza di Servizio Civile. Ora, un anno dopo, mi trovo davanti a un foglio bianco per fare il bilancio di questa mia scelta. Non penso di riuscire a raccontare a parole o scrivendo tutto quello che questo anno mi ha dato, penso che sia un tipo di esperienza che vada vissuta per essere davvero capita.
Sono a casa da una settimana, forse ancora troppo poco per riuscire a capire davvero quanto questo anno in Cameroun, a Sangmelima, mi abbia profondamente cambiata. È ancora tutto così fresco e così vicino.

Mi sembra ancora di sentire le voci dei bambini che arrivano a scuola e mi svegliano al mattino o il rumore delle tazze, mentre la mia compagna di avventura Francesca ci prepara la colazione.
E invece no, è davvero tutto finito. Il mio nuovo mondo, che mi ero creata lontano da casa, non c’è più e ancora una volta bisogna ricominciare nel grigio di Milano, con i colori e il calore della terra africana che ho tanto amato, ormai solo nei miei ricordi.
Quello che ad oggi posso affermare con certezza è che rifarei ancora mille volte la scelta di partire. In questo anno mi sono riscoperta, ho imparato a lavorare con i bambini e ad amarli.
Sono proprio loro che, con la loro ingenuità e il loro affetto, non mi hanno fatto mancare i legami che avevo a casa.
Ho conosciuto una nuova cultura e questo arricchisce sempre. Non è stato facile relazionarsi, ma anche questo mi ha fatto crescere, capire come relazionarmi con le persone e a che livello concedere la mia fiducia. 

Ho imparato ad apprezzare i ritmi di vita africani e ad adattarmi alla loro tranquillità e leggerezza con cui prendere la vita. “Villaggio Fraternité” è stata la mia casa in questo anno e una parte di me e del mio cuore credo resterà lì.
Voglio approfittare di questo articolo e ringraziare tutti: lo staff locale, i bambini, i miei Chefs e le mie compagne di avventura perché senza di loro non sarebbe stato lo stesso.
Si parte con tante aspettative, con la voglia di lasciare il segno e, almeno nel mio caso, si torna con molta umiltà.
Non so se ho lasciato qualcosa e se i miei bimbi si ricorderanno di me crescendo, quello che però posso dire è che questa esperienza a me ha lasciato tanto.
Ora è tempo di ricominciare, ma voglio partire proprio da qui, provare a restare nel mondo della cooperazione internazionale e continuare a crescere con nuovi progetti.

Jessica Valerani

venerdì 23 novembre 2018

Il coraggio


Se i primi sei mesi di Servizio Civile è stato faticoso e difficile adattarsi, gli ultimi sei si sono susseguiti uno dopo l’altro senza che nemmeno me ne rendessi conto. Le due settimane trascorse in Italia durante il rientro di metà servizio mi sono servite per fare una sorta di bilancio della prima parte della mia esperienza. Sono quindi tornata a giugno carica e pronta a mettermi in gioco ancora di più, spinta da quella sensazione di aver lasciato indietro delle cose, e che quella sarebbe stata l’ultima opportunità per farle. Per raccontarle tutte non basterebbe un articolo.

Concludo il mio servizio Civile con la consapevolezza che forse non avrò lasciato una grande impronta a livello progettuale, ma so di averla lasciata nel cuore di alcuni. Di Giovanni, che adesso viene a cercare la sua maestra d’inglese dicendomi “Tata, Tata, Sono arrivato primo della classe!”; di Flora, che nonostante sia già al liceo, ogni volta che vado a portarle un libro mi saluta con un dolcissimo abbraccio; di Ma’a Marie , che mi vuole bene come se fossi sua nipote; di Bernadette e Benjamain, che ogni volta che vado a far loro visita hanno sempre un piatto pronto per me. So che tutti loro e altri, si ricorderanno sempre di Tata Francesca. Ma ciò di cui non si rendono conto è di quanto loro hanno trasmesso a me e che per questo li ringrazierò per sempre. Mi porterò sempre nel cuore quello che mi hanno insegnato, per esempio a vivere la vita con più leggerezza e coraggio.

Ho anche acquisito un’altra consapevolezza, ovvero che il Cameroun è un paese che ha compreso quanto l’educazione sia importante per crescere un popolo in grado svilupparsi. C’è ancora molto lavoro da fare in questo senso e Villaggio Fraternité, in una piccola comunità come quella di Sangmelima, rende possibile a dei bambini, che altrimenti non ne avrebbero la possibilità, di diventare dei giovani intelligenti e responsabili. Sono orgogliosa di aver dato il mio contributo, anche se minimo, a questo progetto.


Negli ultimi giorni a Villaggio mi sono sentita avvolta da un forte sentimento di nostalgia. Mi sono resa conto che non vedrò i bimbi della materna passare dalla divisa rossa a quella blu della primaria, non andrò più a fare la spesa al mercato di Sangmelima, non sarò più in ufficio pronta a dare una matita a chi ha già finito la propria e non vedrò più il prugno davanti casa carico di frutti. Villaggio Fraternité e Sangmelima sono state la mia famiglia e la mia casa in quest’ultimo anno e mi rattrista molto dover salutare quella che ormai era diventata la mia quotidianità.



 Spero che il mio saluto sia soltanto un “arrivederci, a presto”  e che di tanto in tanto avrò l’opportunità di passare a Villaggio e vedere come i bambini e i girasoli siano cresciuti e sentirmi fiera di ciò.

Francesca Bucaletti

mercoledì 21 novembre 2018

Il tempo

L’ultima volta che ho preso carta e penna per raccontare questa esperienza era maggio, a metà servizio. Mi sembra ieri eppure sono già passati sei mesi. Ho riflettuto su questa cosa e mi sono chiesta: “Perché da Dicembre a Maggio il tempo è passato così lento e negli ultimi sei mesi invece è come se il tempo non ci fosse stato?". 
Mi sono svegliata una mattina e ho realizzato che dopo una settimana sarei rientrata in Italia.

Il tempo è un concetto tanto astratto quanto indispensabile per l’uomo.
In tutto il mondo una giornata è fatta di ventiquattro ore, un’ora di sessanta minuti e un minuto di sessanta secondi; eppure nella quotidianità di ognuno di noi è così relativo!
Ci sono giornate che ti sembrano non finire mai e altre che passano senza che nemmeno te ne accorgi. Se questo è quello che succede nel nostro piccolo, la stessa relatività la possiamo trovare nel confronto di culture diverse.

In base all’esperienza di Servizio Civile che ho svolto quest’anno a Sangmélima, nel Sud del Camerun, posso azzardarmi a dire “Paese che vai, tempo che trovi”.
In Italia, forse in Europa, il tempo esiste indipendentemente dall’uomo e le attività dell’uomo sono scandite dal tempo. L’uomo dipende dallo scorrere del tempo: c’è un orario per svegliarsi, uno per mangiare, uno per dormire; appuntamenti fissati con il dentista, la parrucchiera, il commercialista. L’orologio è sul nostro polso e siamo ossessionati da quelle lancette che avanzano e ci ricordano che a quell’ora succederà quella certa cosa.

A Sangmélima non è così, a Sangmélima è il tempo a essere dipendente dall’uomo; è l’uomo che con le sue attività controlla e dirige il tempo. Il tempo si modella in base a ciò che l’uomo fa.


Ed ecco quindi che tu italiana, oltretutto proveniente da Milano dove le persone non solo sono dipendenti dal tempo ma lo rincorrono, ti trovi spaesata.
Sei al mercato e ti fermi a parlare un po’ con la signora che ti vende la verdura e lei al tuo arrivederci risponde “Aprés” (a dopo) e nella tua testa inizi a pensare “A dopo quando? Forse le ho detto qualche cosa di sbagliato in francese. Ma poi, dove ci dovremmo vedere dopo? A che ora? Non ho il suo numero di telefono per metterci d’accordo” e alla fine capisci che è solo un modo di dire “Ci rivediamo”, ma non è necessario stabilire il dove e il quando.
Vai al ristorante e ordini da mangiare. Dopo mezz’ora chiedi “Ma tra quanto tempo sarà pronto?” e la risposta è “È già pronto”. Il mangiare arriva poi dopo un’altra mezz’ora.
Hai un appuntamento con un amico alle tre e sono le tre e mezza, lo chiami per chiedergli dove si trova e lui ti risponde “Sono già là”, ti giri a cercarlo e non c’è. Arriva dopo un’oretta: stava riposando, era stanco. Sali sull’autobus e chiedi a che ora partirà. “Quando l’autobus sarà pieno”, è la risposta.

All’inizio tutto questo è snervante, ti arrabbi e loro nemmeno capiscono perché. È normale che il cibo arriverà quando sarà pronto, è normale che se sei stanco prima di uscire riposi un po’ ed è normale che l’autobus parta quando è pieno. E allora impari, non programmi niente nemmeno tu, non solo non ti arrabbi più per i ritardi ma senza accorgertene inizi ad arrivare anche tu in ritardo agli appuntamenti. Senza rendertene conto lasci scorrere il tempo proprio come fanno loro.

Grazie a questo il Camerun mi ha fatto vivere un sentimento di libertà, di tranquillità.
Noi occidentali vantiamo tanto le nostre libertà e nessuno mette in dubbio gli sviluppi che siamo riusciti a raggiungere in quanto a diritti dell’essere umano, emancipazione, libertà religiose ecc..
Ma la libertà di vivere tranquilli? La rincorsa al tempo ci impedisce di entrare in contatto con noi stessi, con i nostri limiti e i nostri desideri. Siamo ossessionati da una vita fatta di obiettivi da raggiungere e il presente ci sfugge dalle mani. E così ci ritroviamo tutti in analisi, stressati, sfiancati da una vita che non ci appartiene.


Tante cose mi hanno insegnato l’Africa, il Camerun, Sangmélima, ma l’unico insegnamento che non vorrei mai dimenticare è proprio questo: l’unico obiettivo della nostra vita deve essere la felicità e l’unico modo per trovarla è quello di non farci travolgere da aspettative e vivere sereni, senza essere condizionati dallo scorrere del tempo.
Anna Franzoni

martedì 31 luglio 2018

A Villaggio Fraternité si coltiva-di Ilaria Tinelli


A Villaggio Fraternité si coltiva: Coltiviamo i diritti dei bambini!
Coltiviamo i loro diritti offrendogli l’opportunità di poter frequentare la scuola e crescere, di far maturare i frutti di una buona formazione proveniente dalla preparazione che i nostri insegnanti e nostri educatori quotidianamente gli trasmettono.
Coltiviamo i loro diritti perché ogni bambino del Centro d’Accoglienza viene sostenuto in quanto persona umana, garantendo le spese mediche e quelle scolastiche, il supporto pomeridiano nello svolgimento dei compiti e un pasto quotidiano. Ci prendiamo cura degli “ultimi”, di quei bambini che si trovano a vivere in famiglie con difficoltà economiche, che sono orfani e che hanno degli handicap.

A Villaggio Fraternité si coltiva: coltiviamo i legami interpersonali!
Coltiviamo i legami di amicizia che, piano piano, iniziano a germogliare e a portare colore laddove la terra, nonostante sia nel cuore della foresta equatoriale, non è sempre fertile. Quelli con i bambini, con i colleghi, con il popolo camerunese per riuscire, nutriti dallo stesso “fertilizzante d’amore”, a sbocciare vicini per colorare questa terra e renderla più vivace perché, solo uniti, possiamo far diventare incantevole il mondo in cui viviamo.
A Villaggio Fraternité si coltiva: coltiviamo frutti ed ortaggi!
Coltiviamo papaye e guaiave, ananas e platani, avocado e manghi per portare un po’ di dolcezza nella vita di chi, quotidianamente, mette piede a Villaggio, ma anche in quella di chi, al mercato, decide di comprare i nostri prodotti.
Coltiviamo i folong che, da piccoli semi che erano, abbiamo visto crescere giorno dopo giorno annaffiandoli, piante di cui ci siamo prese cura lavorando la terra, potandoli, nutrendoli ancora e cogliendoli per poi cucinarli e servirli nei piatti dei nostri bambini.


A Villaggio Fraternité si coltiva: coltiviamo la nostra crescita personale!
Coltiviamo la nostra crescita mettendoci in gioco anche quando le nostre proposte vengono rifiutate, continuando la partita senza scoraggiarci dal goal subito e giocando in attacco.
Coltiviamo la nostra crescita personale perché ci confrontiamo con i nostri difetti, cercando di migliorarli e, perché no, con i nostri pregi, valorizzandoli.
Coltiviamo la nostra crescita personale quando, dall’amore donato ai nostri bambini durante l’anno scolastico, ne riceviamo in cambio uno più grande, venendo così rivestiti da una grande gioia, frutto della relazione di affetto creatasi.
A Villaggio Fraternité si coltiva: coltiviamo la bellezza di vivere!
Coltiviamo e apprezziamo giorno dopo giorno, tramonto dopo tramonto, abbraccio dopo abbraccio, il fascino della vita, quel respiro puro, quella boccata d’ossigeno che tanto desideravo trovare all’inizio del mio anno di Servizio Civile.
Coltiviamo la bellezza della vita con ogni sua sfumatura, negativa o positiva che sia, in ogni sorpresa che ci offre e che mai ci saremmo aspettati perché è soltanto quando ci sentiamo pieni dell’amore vero che la vita ci sorride ogni giorno.



Ilaria Tinelli

giovedì 24 maggio 2018

Francesca racconta i suoi primi sei mesi a Villaggio Fraternité-di Francesca Bucaletti

È metà maggio, e tra qualche settimana scadrà il mio visto di sei mesi per vivere in Cameroun. Questo vuol dire che sono già a metà della mia esperienza di servizio civile. Ricordo perfettamente la spaesatezza e la confusione con cui osservavo la silhouette della foresta equatoriale fuori dal finestrino durante il tragitto Yaoundé -Sangmelima il giorno del mio arrivo. Quella è stata una delle prime occasioni in cui mi sono detta “Fra, sei in Africa”. 
Arrivata a Villaggio Fraternité, di sera, le cicale mi hanno fatta sentire un po’ come a casa mia d’estate. Un’altra cosa che Villaggio ha in comune con casa mia in Toscana è il fatto di trovarsi a qualche chilometro dal centro città. Siamo immersi nel verde e lontani dal brusio della ville. 
Nonostante le somiglianze con il mio paesino natale, ce ne ho messo di tempo per adattarmi! 

I primi due mesi mi sentivo un po’ persa, sia nei confronti del mio ruolo nel progetto, sia nella quotidianità. Ma non ho mai pensato di aver fatto la scelta sbagliata e di voler tornare indietro. Infatti col tempo e la voglia di fare ho trovato la mia dimensione e adesso mi sento a mio agio con il contesto e con me stessa. 
Per questo devo ringraziare i sorrisi dei bambini, i consigli dei miei “Chefs” Flavio Valerio e Michele e le parole di conforto scambiate con le mie colleghe civiliste, ormai “mes sœurs”.

In questi mesi ho imparato molte cose ma quella più importante è a mettermi in discussione, e sono tante le volte in cui mi sono trovata a farlo. 

In primis ho imparato a mettere in discussione le aspettative. Si parte dall’Italia un po’ tutti con l’idea di aiutare il prossimo e che quindi si ricoprirà un ruolo indispensabile, e invece ti rendi conto che non è proprio così.. Villaggio Fraternité è un progetto già ben avviato, che gode di un’ottima reputazione a Sangmélima e resta solo da perfezionarlo. 
Se all’inizio questa cosa mi frustrava, adesso ho capito che è bene rendersi utili ma mai indispensabili, e che le persone apprezzano quello che fai, anche se è un piccolo gesto, se lo fai con il cuore. 

Inoltre ho imparato a mettere in discussione le mie certezze. Sorrido quando penso che, fino a prima della mia partenza, chiedevo se ci fosse possibilità di tornare qualche mese prima per cominciare di fretta e furia la magistrale - perché non si può “perdere”un altro anno. Adesso se mi offrissero di rimanere qualche mese in più accetterei senza pensarci due volte!

Ho imparato che cos’è un progetto di sviluppo ed ho toccato concretamente l’impegno e la fatica che stanno alla base di tutto ciò. Professionalmente mi sono messa in gioco in mansioni che non avrei mai pensato di svolgere, prima di scegliere di fare in servizio civile. Le lezioni di inglese con i bambini si sono rivelate una ricchezza soprattutto per me; ho scoperto l’importanza di lavorare sull’aspetto comunicativo di un progetto; ho provato la gioia nel vedere spuntare da sotto il suolo le prime fogline dei semi che avevo piantato, e l’orgoglio nel vederle crescere! 

Ho imparato a sentirmi la diversa, la mtangan, la blanche, la wat e a fare i conti con i pregiudizi e le immagini che questi appellativi creano nell’immaginario degli Africani. 

Ma soprattutto ho imparato tanto, moltissimo su di me e su una parte del mio carattere che era ancora totalmente inesplorata. Perché il Servizio Civile è molto più di un anno di volontariato all’estero; in quell’anno vivi, e impari a vivere veramente. 


Non mi resta che dire che aspetto con ansia di vedere cosa mi riserveranno i prossimi sei mesi.

di Francesca Bucaletti 

lunedì 5 marzo 2018

Diario dal Camerun di Ilaria


Sono ormai circa tre mesi che mi trovo nel continente africano, anche se sembra di essere qui da sempre, anche se sembra ieri che, appena scesa dall’aereo, mi son sentita travolta da una sensazione nostalgica e allo stesso tempo gioiosa.

Se guardo indietro mi rendo conto che già tanti sono gli sguardi incrociati, le mani tenute, le parole ascoltate, come altrettanti sono gli sforzi e le fatiche che all’inizio di questa mia esperienza ho dovuto affrontare. Eppure ricordo ancora molto lucidamente quel giorno di Settembre in cui capii che “questo è il luogo che Dio ha scelto per te, questo è il tempo pensato per te, quella che vedi è la strada tracciata per te e quello che senti l’Amore che ti accompagnerà.”
Come ogni inizio, anche quello di quest’anno di servizio civile è stato parecchio difficile, ma non ho mai dimenticato queste parole, non ho mai dimenticato di essere qui perché scelta e mandata dal Signore.

Ogni giorno faticoso, ogni ostacolo, ogni lotta contro i mulini a vento, ho avuto la fortuna di combatterli con una Forza più grande di qualsiasi ricaduta, una Forza che mi spinge a non demordere, anche quando sono debole. Se vi dico che qui a Sangmelìma (cittadina del sud del Cameroun) per riuscire ad andare ad una messa cattolica ci ho messo circa un mese, son sicura resterete un po’ sorpresi, eppure è così.

Capita che cammini e, sbagliando incrocio arrivi ad una chiesa e ti ritrovi in macchina con un pastore protestante per andare a festeggiare il giorno del Signore in un villaggio nel cuore della foresta; capita che sbagli l’orario della messa e arrivi a quella in bulu (lingua locale) e francese, senza così comprenderne più della metà; capita che, per andare alla parrocchia che ti hanno suggerito, non hai mezzi di trasporto e devi camminare 45 minuti per raggiungere la Chiesa e ricevere il corpo di Cristo.
Eppure, grazie ad ogni piccola sfida, grazie alle persone che mi sono vicine anche da lontano, riesco, un passo dopo l’altro, a rialzarmi per camminare.

Nonostante sia partita con un’idea molto precisa della “mia Africa”, nonostante questi miei pensieri non possano qui trovare concretezza, ho capito che la vera missione a cui siamo chiamati, è quella di ricercare il bene più grande, cioè la nostra felicità, mettendoci in gioco con gli altri e per gli altri.
Così, negli abbracci dei miei bambini della scuola materna, nella loro dolcezza con cui mi chiamano “Tata Ilaria”, nella loro spontaneità e, perché no, nei loro capricci, riesco a sentirmi pienamente serena. Così, nelle persone con cui lavoro, nel confronto con tante diversità, culturali e non, nella condivisione di valori, riesco a mettere in luce i miei difetti, cercare di accettarli e guardarli come dono del Signore. Così, nel lavoro quotidiano della terra, nella cura dell’orto, nell’annaffiare e nel vedere germogliare e crescere il seme piantato, riesco ogni giorno a stupirmi della bellezza e della grandezza del Creato.

Sono ormai circa tre mesi che mi trovo nel continente africano e tante continuano ad essere le novità con cui bisogna confrontarsi, come tante le domande che mi sorgono e mi mettono in difficoltà. Tuttavia, se guardo i sorrisi di quei bambini orfani, quello della piccola Divine o quello di Zee, capisco quanto il Signore sia grande perché si è fatto piccolo tra i piccoli per annunciarci che ogni croce che portiamo non deve essere motivo di tristezza ma di gioia e che con l’aiuto della fede, possiamo trasformarle in uno strumento di salvezza per il nostro cammino verso la santità.


Ilaria Tinelli
Volontaria in Servizio Civile 

mercoledì 13 dicembre 2017

Perché hai scelto il Servizio Civile? La testimonianza di Marta

Ricordo il primo spot  visto in tv sul servizio civile, vedevo ragazzi e ragazze che lavoravano insieme e si occupavano di persone che erano in difficoltà, ero ancora piccola e non mi rendevo conto pienamente di cosa voleva dire essere un civilista, avevo intuito solo una cosa, quei ragazzi erano lì per servire gli altri.

Tutto ciò è rimasto dentro di me sepolto in qualche angolo della mia coscienza, quasi dimenticato, fino a quando, un amico di famiglia, mi suggerì di presentare la domanda diversi anni dopo.

In questi anni ho fatto diverse esperienze di volontariato che mi hanno segnato profondamente e che poi, purtroppo, per diversi motivi ho dovuto abbandonare; questo, mi ha lasciato il desiderio di dedicare un periodo della mia vita a un’esperienza di servizio ma allo stesso tempo era un momento in cui cercavo di capire che indirizzo dare alla mia vita e ai miei studi.
Qui è tornato in gioco il servizio civile, scegliere il progetto non è stato affatto facile, estero o Italia? cooperazione o beni culturali? Ho colto l’occasione per lavorare su me stessa, per mettermi in discussione e capire che direzione far prendere alla mia vita.
Alla fine sono approdata in Avaz, rimarrò in Italia a Roma.  

Sarà sicuramente un’opportunità: per mettermi in gioco, per crescere, per entrare nel mondo del lavoro e della cooperazione internazionale.
Probabilmente, come quando vidi quello spot in tv, non ho ancora capito pienamente cosa significa essere un civilista e non ho ancora realizzato quanto quest’anno potrà aiutarmi a crescere, posso solo immaginare, ma non voglio crearmi troppe aspettative, voglio vivere il mio servizio giorno per giorno, godermi ogni momento e vivere ogni difficoltà e gioia.
Mi sento pronta, gasata, emozionata. Durante la formazione generale sentivo l’entusiasmo  crescere ogni giorno di più come poche volte ho provato in vita mia.

Marta Chionchio
Volontaria in Servizio Civile 

Ecco perché Anna ha scelto il Servizio Civile

A Marzo 2015 ho iniziato a lavorare in un centro accoglienza per richiedenti asilo a Milano, dove sono stata a contatto con ragazzi di diverse nazionalità africane. Più i giorni passavano, più mi rendevo conto di come alcune loro idee e alcuni loro comportamenti erano davvero difficili da “decifrare” e quindi comprendere secondo le nostre categorie “occidentali”. Tutto ciò portava a incomprensioni e conflitti, che erano invece facilmente risolvibili quando ci si fermava a ragionare, uscendo dai quei preconcetti costruiti secondo la nostra cultura.

Da qui nasce quindi la voglia di immergermi io stessa in un paese a me sconosciuto da ogni punto di vista, per due motivazioni in particolare: innanzitutto per fare un’esperienza che mi desse la possibilità di conoscere più da vicino una di quelle culture con cui quotidianamente ero in contatto grazie al mio lavoro. In secondo luogo, ma non meno importante, per provare cosa vuol dire essere straniera, trovarsi catapultata in un paese così lontano geograficamente e culturalmente dal mio, un paese di cui so solo quelle poche informazioni reperibili sul web (e chissà se poi corrispondono alla realtà). 
Per la prima volta sarò io a dovermi adeguare a usi, costumi, linguaggi altrui. Credo che, per chi come me vuole lavorare nell’ambito delle migrazioni, sia indispensabile fare esperienza di quelle sensazioni di spaesamento e frustrazione iniziali, tipiche delle situazioni di emigrazione.

A tutte queste belle e ragionevoli motivazioni, si aggiunge quella che io definisco “vocazione”, un qualcosa dentro di me che mi dice “Vai!”, una forza inspiegabile che mi spinge a prendere decisioni come questa: “Mollo tutto e faccio un anno di servizio civile in Camerun”, una decisione pazza e irresponsabile per la maggior parte dei miei amici e famigliari, l’unica decisione di buon senso che, a mio avviso, potevo prendere in questo momento della mia vita.
Non ci sono motivazioni comprensibili alla ratio umana, ma solo una spinta interiore impossibile da spiegare con le parole.


Anna Franzoni
Volontaria in Servizio Civile in Camerun 

Perché hai scelto il Servizio Civile? La testimonianza di Francesca

Due anni fa non avrei mai immaginato di scrivere un articolo per spiegare il motivo che mi ha spinto a scegliere di fare un anno di Servizio Civile all’estero, in Africa.
Eppure, negli ultimi mesi, è stato un interrogativo che mi è stato posto numerose volte. Prima da parenti e amici, con un tono di interdizione e curiosità, ma anche da colleghi civilisti che come me stanno per partire. Anch’io per prima me lo sono domandata e me lo domando spesso.
Ogni volta mi do una risposta diversa. Non perché io non sia sicura della mia scelta, bensì perché le motivazioni sono molteplici e oltretutto sono mutate con il tempo.

Se all’inizio la spinta principale è nata dalla voglia e dal bisogno di mettermi in gioco in un’esperienza totalmente nuova, adesso ho capito che ciò che mi smuove è molto più profondo e che mi sto imbarcando in un’avventura che potrebbe cambiarmi la vita. Anzi, che sicuramente, comunque vada, mi cambierà la vita.  
Sono certa che sarà un anno ricco di emozioni forti e spero che mi aiuti a crescere e a capire se il mondo della cooperazione internazionale è quello giusto per il mio futuro.


Soprattutto ho scelto il Servizio Civile non per me, ma per gli altri.
Perché credo nei valori di Pace, Solidarietà e Libertà. Sono fiera di far parte di questo gruppo di giovani civilisti che, come me, si sono fatti ambasciatori di questi principi, senza paura di affermare di essere Cittadini del Mondo.

Francesca Bucaletti
Volontaria in Servizio Civile in Camerun

Perché hai scelto di fare Servizio Civile? La risposta di Ilaria


Mai mi sarei aspettata di dover rispondere così, su due piedi, ad una domanda tanto importante.
Il sole tramonta e fuori le campane suonano, ma nella mia testa c’è un turbinio di pensieri.

Perché, mi chiedo, perché è così difficile?
Perché scegliere di fare un anno di servizio civile vuol dire mettersi in gioco e crescere, ma non sempre è facile lasciare le certezze per partire e mettersi in cammino verso un luogo che, non solo è lontano, ma è anche sconosciuto. Eppure, scegliere di vivere un’esperienza tale, vuol dire fidarsi di sé stessi, di ciò che si sente sia opportuno fare in un periodo preciso della propria vita, quando si è giunti al termine del proprio percorso di studi. E per me, scegliere di fare servizio civile, è seguire una chiamata, è saper leggere ogni singolo avvenimento come segno importante per la realizzazione di un grande sogno. Mettersi al servizio degli altri per (ri)trovare sé stessi, confrontarsi con altri, diversi da noi, per arricchirsi e trovare così il coraggio, che non è negazione della paura, ma capacità di controllarla. Mettersi alla prova in una cultura diversa perché “arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti. […] D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere.” (Italo Calvino)

Scegliere di fare il servizio civile vuol dire condividere un pezzo del proprio cammino con altri giovani che, come me, si interrogano e cercano risposte, anche se a domande diverse, ma da cui sicuramente si può sempre imparare qualcosa di nuovo perché è nel confronto quotidiano dei propri limiti e dei propri pregi che si può crescere e vivere in un clima di fratellanza reciproca. 
Vivere il servizio civile in terra africana, nella foresta equatoriale camerunese e a contatto con i bambini, spero mi potrà aiutare a farlo in modo più limpido e sobrio, più vero e diretto, prendendo una pausa dal “mondo inquinato” in cui siamo immersi, sperando di sentire quel vento fresco che potrà diventare l’ossigeno del mio respiro, la mia gioia di vivere.


Ilaria Tinelli
Volontaria in Servizio Civile in Camerun

venerdì 13 gennaio 2017

Impressioni di gennaio - Il racconto di Flavio, Volontario del Servizio Civile


Oggi ho pensato che sono ormai 3 mesi che sono qui, a Sangmelima. Il tempo è volato... veramente sembra ieri! Tanto e poco è successo in questo periodo: tanto, perché mi accorgo di aver imparato molto, soprattutto su di me; ho avuto la possibilità di conoscere meglio il progetto “Villaggio Fraternité”, veramente ben congeniato e condotto egregiamente da Michele (il capo progetto) e Valerio (il rappresentante paese), che ci hanno accolto splendidamente e che ci consigliano e guidano sempre. Ho trovato un po’ il mio ruolo qui a Villaggio, il che aiuta molto a muoversi nel mondo, soprattutto quando quel mondo tu non lo conosci affatto; ho poi trovato la cosa più importante di tutte, ovvero i bambini. Non è per luogo comune, ma effettivamente qui i bambini ti rubano il cuore con i loro sorrisi e i loro abbracci, donati gratuitamente a te – straniero – che non sai come ricambiare degnamente. Vederli divertirsi, giocare all’interno di una struttura che li accoglie come ogni bambino del mondo dovrebbe essere accolto non ha eguali. E vedere anche come venga apprezzato l’impegno che ogni giorno in primis Michele e Valerio, in secundis noi volontari mettiamo all’interno del progetto, è la più grande gratificazione che si possa ricevere; non per sentirci migliori degli altri o per puro egoismo, ma perché ci regala quel feedback che ci permette di dire “ok, siamo sulla strada giusta”.
Eppure ancora sento di non aver fatto nulla, o comunque abbastanza. O meglio, ho fatto la base, quel composto di calcare e bitume chiamato asfalto che ti permette di camminare su un terreno meno scivoloso, meno impervio; ma ancora non mi sono messo in cammino, non sono riuscito a crearmi una mia vita qui, con degli amici miei, dei legami miei e solo miei, tali da poter entrare effettivamente a far parte del tessuto della società che mi ospita. Penso sia importante per comprendere dove ti trovi e chi hai intorno, per poter, quindi, fare qualcosa di reale; il rischio, altrimenti, è di rimanere all’interno di queste quattro mura e tornare senza aver capito nulla di dove sei stato (e senza aver quindi inciso su nessuno).
Il tempo è volato e io non me ne sono accorto; e mi dispiace un sacco, non solo perché sento di aver perso del tempo prezioso, ma anche perché mi piace stare qui, mi piacciono le persone che incontro per strada, che girano attorno Villaggio Fraternité. E vorrei conoscerle molto meglio, farle mie, diventare loro amico e confidente.
A Natale abbiamo festeggiato con gli amici di Michele e le loro famiglie, tutti insieme, ed è stata una delle giornate più spensierate della mia vita, in cui mi sono sentito più in pace con me stesso. Ma mi accorgo che un po’ lo spaesamento, un po’ la lingua e un po’ la paura mi bloccano e non mi fanno fare quel passo in avanti decisivo. Quando mi immagino di farcela, mi vedo sulla soglia di una porta che affaccia sul vuoto, che gonfio il petto, mi metto degli occhialoni per proteggermi e salto giù. Se mi farò male, ne sarà valsa la pena. 

Ah, un piccolo aneddoto di questi 3 mesi in Africa:

Un giorno, decido che era giunto il momento di uscire da Villaggio (per l’appunto), così prendo la mia moto e mi avvio verso i villaggi presenti lungo la strada che porta al Centrafrica, villaggi che già avevo visitato insieme a Michele. Volevo “buttarmi”, conoscere un po’ di persone, fare due chiacchiere con la gente di qui. Insomma, dopo aver percorso un bel po’ di chilometri ed aver attraversato parecchi villaggi, e dopo soprattutto aver rinunciato alla mia idea originaria di fermarmi a un baretto a chiacchierare con chi fosse stato presente lì in quel momento (ne avessi visto uno, di bar, lungo la strada!), decido che avrei dato retta al prossimo che mi avesse urlato di fermarmi; infatti, lungo il percorso, in molti, seduti su una sedia appena fuori dalla loro abitazione, mi invitavano ad avvicinarmi, probabilmente incuriositi dal mio passare.
Il prossimo, in quel caso, si chiamava Kamir e stava lì seduto, intento a sorseggiare una bevanda biancastra assieme ai propri amici e parenti.Vedendomi, mi invita a sedermi, mi offre un bicchiere di quella bevanda (che ho scoperto dopo essere vino di palma) e inizia a chiedermi da dove vengo, cosa faccio, etc. Quando gli dico che sono un volontario di Villaggio Fraternité, mi dice di conoscerlo bene e che vorrebbe portare lì i suoi figli, perché ha sentito dire che, in quella scuola, i bambini sono ben seguiti ed escono preparati. Allora gli dico: “Beh, dai, allora vai e iscrivi i tuoi figli!”. Nella sua faccia, leggo scritto “povero ingenuo” a caratteri cubitali. Mi sorride, con il braccio disegna un arco a indicare tutto il villaggio che ci circonda e mi fa: “Qui mica ce ne ho uno o due; uno dei pulmini che avete lo riempirei solo io. Guardati intorno e vedrai figli miei ovunque!”.
Con questo, dopo i doverosi saluti e la promessa di rivedersi a breve, ho preso di nuovo la mia moto e me ne sono tornato a Villaggio, pensando, con un leggero sorriso, a quanto certe cose possano essere diverse da un paese all’altro, senza che tu te ne renda conto.

Flavio Boffi


mercoledì 23 novembre 2016

Perchè hai scelto il Servizio Civile Nazionale? Valerio: "Per avere l'opportunità di rivoluzionarmi"

Perchè hai scelto il Servizio Civile Nazionale? 

Rivoluzionare e rivoluzionarsi

Sarò sincero con voi, dopo la laurea la mia vita stava prendendo una direzione un po' troppo lineare (eh sì, la vita da ingegnere è abbastanza dura J).
Ho quindi deciso di fermarmi e riflettere… La necessità di una rivoluzione personale ha preso il sopravvento. Sfogliando tra le varie opportunità utili a questo scopo e riservate ai giovani come me (ancora per poco, s’intende XD) mi sono subito concentrato sul servizio civile all’estero. Leggendo i bandi ho individuato quelli che potevano meglio adattarsi alle mie passioni e alla  mia formazione. Ed ecco una miriade di opportunità in cui mettersi in gioco sia professionalmente che umanamente.
Ed ecco anche la possibilità per rivoluzionarsi, per spostare per un po' il centro della propria attenzione da sè stessi verso gli altri e per mettersi veramente in gioco.

Ho scelto l’Africa. Gli aspetti legati al mondo dell’acqua, dell’agricoltura e dell’ambiente hanno letteralmente conquistato la mia attenzione; senza riflessione alcuna, ho quindi compilato e spedito la domanda.

Non restava quindi che aspettare...

AVAZ ha scelto me e sono pronto.
O meglio: siamo pronti, saremo in quattro a partire per Sangmelima: Flavio, Silvia, Erika ed Io.
O meglio ancora, saremo in tantissimi: decine di ragazzi che come me hanno scelto il servizio civile all’estero per lasciare un pezzetto di se stessi in giro per il mondo per ritornare a casa un po’ più ricchi.

Forza Ragazzi!


Valerio Catania 

Perché hai scelto il Servizio Civile Nazionale? Erica: "Perché si vive di emozioni e il Servizio Civile Nazionale ne è pieno"

Perché fare l’esperienza di Servizio Civile Nazionale

Si può pensare che l’esperienza di Servizio Civile inizi nel momento in cui si prende un aereo per il Paese di destinazione.
Questa esperienza ha invece inizio nel momento in cui si decide di iscriversi alle selezioni,  perché già in quell’istante si ha riflettuto parecchio sul tipo di scelta fatta.
E di che tipo di scelta si tratta? Bisogna tener conto di molti fattori, come lo stare lontani da casa, dai propri cari, dalla routine. Si tratta di prendere in mano la propria vita e di valutare se è il momento di fare dei cambiamenti. 
Il Servizio Civile Nazionale ti dà l’opportunità di stare in un Paese estero per dieci mesi, in un contesto totalmente nuovo, persone nuove, lingua diversa. Una cultura sconosciuta, l’ignoto. Preoccupante, ma allo stesso adrenalinico ed elettrizzante.
Tutto questo però va in secondo piano rispetto alla motivazione che più di tutte ti spinge a fare domanda: la voglia di aiutare il prossimo, di voler fare qualcosa di concreto per migliorare la società. Sentirsi parte di un progetto il cui obiettivo è aiutare i paesi più poveri è stimolante. 
È vero che molti lo considerano un lavoro, è pagato certo. Ma nessuno può sperare di partire per un’esperienza simile per soldi o per una voce in più da aggiungere al curriculum.
Il Servizio Civile Nazionale dà anche questo, ma ciò che conta di più è il voler trasmettere i nostri valori e magari riuscire ad assorbirne di nuovi.
Questa è un’esperienza in cui si dà, si va per dare un contributo, un aiuto.

A rifletterci bene però, alla fine sarà più un ricevere di emozioni. Dire emozioni è facile, sentire sarà poi tutta un’altra cosa. Non riesco nemmeno ad immaginare quanto tutto questo cambierà e aiuterà la mia vita futura nel mondo.
Quindi alla domanda “ perché ho scelto di fare il SNC” , la mia risposta è perché si vive di emozioni e il Servizio Civile Nazionale ne è pieno.

Erica


giovedì 22 settembre 2016

Villaggio Fraternité visto con gli occhi di Martina


Martina Leto - Volontaria in Servizio Civile in Camerun. 
Il racconto a conclusione della sua esperienza di un anno, in cui ha dato il suo prezioso contributo per le attività a Villaggio Fraternité

A VILLAGGIO

A Villaggio le giornate iniziano presto, perché i bambini non dormono fino a tardi, perché a scuola bisogna arrivare puntuali e se perdi il bus poi te la devi fare a piedi. E allora, che ci sia fango o polvere a seconda della stagione, si arriva a scuola tutti sporchi, l’uniforme blu acceso ormai rossa di terra africana, e la maestra non sarà contenta. Per questo a partire dalla 6 e 30 sentiamo il vociare allegro dei bimbi, arrivati con i primi giri del bus. La giornata non può iniziare in modo migliore.
A Villaggio tutto cambia a seconda della stagione e del clima, la scuola ha tutto un altro aspetto a seconda che ci sia la pioggia o il sole. Il sole qui in Camerun, sull'Equatore, è abbagliante. Quando arriva, la sua luce è forte e intensa, per me in principio difficile da sopportare senza occhiali da sole. E non è solo il paesaggio a cambiare. Quando invece arrivano le piogge, i ritmi cambiano. Le attività iniziano un po' più tardi e vengono svolte più lentamente. Perché è l’acqua che fa da padrona per un po’. L’acqua che inonda le strade, che scorre per Villaggio in veri e propri torrenti, acqua che lava via la polvere e innaffia i campi. E allora aspettiamo che passi e magari ci fermiamo a guardarla, incantati dalla musica che fa.
A Villaggio non esiste il silenzio, esiste la tranquillità, la calma del mattino presto e della sera, ma il silenzio non esiste. Perché anche quando la scuola chiude e i bambini partono, quando i bus sono parcheggiati e la cucina ha servito l’ultimo piatto, quando temporali e sole cocente non fanno più risuonare le lamiere sul tetto, Villaggio è ancora vivo. Noi non siamo gli unici suoi inquilini. Così verde e inserito proprio nella foresta, è abitato da centinaia di specie diverse di insetti e uccelli e altre creature, e tutte ci fanno sentire la loro voce a tutte le ore del giorno, ma soprattutto della notte. Ci si addormenta con un dolce sottofondo di grilli, cicale e cinguettii; a volte anche i versi di altri animali, da noi considerati quasi mitologici, perché ancora non ne conosciamo la forma o l’aspetto.
A Villaggio si sentono parlare tante lingue differenti, mai la stessa. Il francese è senz'altro la lingua principale, e impararlo è stato incredibilmente divertente. I collaboratori di Villaggio, abituati ad accogliere volontari senza troppa padronanza ma con molto entusiasmo, hanno imparato ad usare l’immaginazione quando noi cerchiamo di spiegarci, soprattutto i primi tempi, e ti correggono e spiegano con pazienza, facendosi però sfuggire ogni tanto qualche sincera risata per i nostri strafalcioni.
Il Camerun è inoltre un paese bilingue, e oltre ad utilizzarlo nelle classi, non è raro sentire i bambini cantare l’inno nazionale al mattino, o recitare poesie e filastrocche in inglese. Tutti sanno che il bilinguismo è un dono. Tra noi espatriati parliamo naturalmente italiano, ma l’Italia da nord a sud è rappresentata nella nostra casa e le differenze linguistiche ci divertono anche di più del nostro francese. I locali tra di loro parlano più frequentemente il bulu, la musicale lingua dell’etnia del sud, ma per ora noi siamo limitati al francese, magari un giorno…
A Villaggio i protagonisti indiscussi sono i bambini. Quando non ci sono qui manca l’energia, la vita stessa di questa scuola.  I bambini di Villaggio hanno dai 3 ai 14 anni, la nostra scuola comprende la materna e la scuola elementare. Con i bambini non ci si annoia mai, sono pieni di idee e sempre divertiti dalla nostra presenza, che sia il nostro strano aspetto o il nostro francese bizzarro, ma non ti giudicano e non ti prendono in giro. I bambini di Villaggio sono disciplinati e attenti un momento e il momento dopo pieni di energie e giocosi, ma questo perché sono solo bambini, diversi in niente dai bambini italiani o di qualsiasi altra parte del mondo, hanno gli stessi sogni e la stessa sincerità. 

A Villaggio ho imparato la collaborazione, la cooperazione. A Villaggio ho potuto sperimentare che tutti, esperienza o meno, diplomi o meno, possono portare un grosso contributo ad un progetto, secondo le proprie qualità e che è così che scopri qualcosa di te stesso. A Villaggio ho conosciuto tante persone, imparato una lingua, assaggiato una cultura, approfondito un mestiere, stretto delle amicizie, giocato con i bambini, messo alla prova le mie capacità e tanto altro. Posso solo sperare di aver anche lasciato qualcosa, a Villaggio. 


Martina

Elena e i bambini di Villaggio Fraternité

Elena Maglio - Volontaria in Servizio Civile in Camerun. 
Il racconto a conclusione della sua esperienza di un anno, in cui ha dato il suo prezioso contributo per le attività a Villaggio Fraternité


Il giorno 27 alle ore 20.00 dello scorso settembre sono atterrata nell'aeroporto di Yaoundé, caotica capitale del Cameroun, e dopo tre ore di tragitto in macchina, costeggiando la foresta tropicale, sono giunta finalmente a Villaggio Fraternité, situato tra la cittadina di Sangmélima e i villaggi limitrofi.
Col buio della notte, dunque, non avevo avuto modo di osservare Villaggio Fraternité, pur conoscendolo dettagliatamente in foto, attendevo con ansia l’ indomani mattina.
I bimbi della scuola materna avevano l’abitudine a inizio anno di fare “la ronde” davanti casa degli espatriati, quella che quest’anno è stata casa mia, in attesa che il nuovo stadio della scuola fosse pronto per accogliere i loro canti mattutini. Insomma questa è la prima immagine di Villaggio Fraternité che ho impressa nella memoria: 112 piccoli, teneri bimbi ancora insonnoliti, con la loro simpatica tenuta scolastica rosso acceso, che intonano canti e danzano in cerchio nel prato sotto l’albero di prune. Dopo quell’immagine tutte le mie ansie erano scomparse ed ogni giorno grazie a quei sorrisi è stato solo un riconfermarsi della mia scelta.  Questo fu l’inizio del mio primo giorno a Villaggio Fraternité che proseguì con altri sorrisi da parte dei miei nuovi colleghi ed abbracci affettuosissimi di questi teneri bimbi.
Il mio ultimo giorno coinciderà con l’inizio del nuovo anno scolastico, avrò così modo di rivedere e salutare i miei piccoli amici dopo il loro congedo estivo e di iniziare la giornata danzando in cerchio con loro ancora un’ultima volta!
Ognuno di questi bambini e le loro storie 
mi accompagneranno
per sempre.
Tirare le somme di un intero anno è difficile ma dentro di me ho la certezza di aver dato il mio contributo e, viceversa, di aver imparato tanto e di essere stata arricchita dai miei piccoli amici e da tutti gli abitanti di questa cittadina che mi hanno accolto col sorriso.
A chi me lo chiederà dirò di aver imparato da loro a dare tempo al tempo e ad abbandonare schemi e tabelle di marcia dai ritmi troppo veloci; a godere dell’imprevisto, approfittando ad esempio della macchina in panne  per guardare il tramonto con lo sfondo mozzafiato regalato dalla foresta tropicale; a scacciare la negatività e a essere sempre positivi perché “ça va aller”: tutto andrà bene; ad accettare la vita col sorriso anche quando le cose non vanno proprio come noi vorremmo o quando si è malati; a non dare mai niente per scontato e a non sottovalutare nessuno, perché si può imparare da chiunque, persino da piccoli bimbi alti meno di un metro!

Elena