
Eppure
ancora sento di non aver fatto nulla, o comunque abbastanza. O meglio, ho fatto
la base, quel composto di calcare e bitume chiamato asfalto che ti permette di
camminare su un terreno meno scivoloso, meno impervio; ma ancora non mi sono
messo in cammino, non sono riuscito a crearmi una mia vita qui, con degli amici
miei, dei legami miei e solo miei, tali da poter entrare effettivamente a far
parte del tessuto della società che mi ospita. Penso sia importante per
comprendere dove ti trovi e chi hai intorno, per poter, quindi, fare qualcosa
di reale; il rischio, altrimenti, è di rimanere all’interno di queste quattro
mura e tornare senza aver capito nulla di dove sei stato (e senza aver quindi
inciso su nessuno).
Il tempo è volato e io non me ne sono accorto; e mi
dispiace un sacco, non solo perché sento di aver perso del tempo prezioso, ma
anche perché mi piace stare qui, mi piacciono le persone che incontro per
strada, che girano attorno Villaggio Fraternité. E vorrei conoscerle molto
meglio, farle mie, diventare loro amico e confidente.
A Natale abbiamo
festeggiato con gli amici di Michele e le loro famiglie, tutti insieme, ed è
stata una delle giornate più spensierate della mia vita, in cui mi sono sentito
più in pace con me stesso. Ma
mi accorgo che un po’ lo spaesamento, un po’ la lingua e un po’ la paura mi
bloccano e non mi fanno fare quel passo in avanti decisivo. Quando mi immagino
di farcela, mi vedo sulla soglia di una porta che affaccia sul vuoto, che
gonfio il petto, mi metto degli occhialoni per proteggermi e salto giù. Se mi
farò male, ne sarà valsa la pena.
Ah,
un piccolo aneddoto di questi 3 mesi in Africa:
Un
giorno, decido che era giunto il momento di uscire da Villaggio (per
l’appunto), così prendo la mia moto e mi avvio verso i villaggi presenti lungo
la strada che porta al Centrafrica, villaggi che già avevo visitato insieme a Michele. Volevo “buttarmi”, conoscere un po’ di
persone, fare due chiacchiere con la gente di qui. Insomma, dopo aver percorso
un bel po’ di chilometri ed aver attraversato parecchi villaggi, e dopo
soprattutto aver rinunciato alla mia idea originaria di fermarmi a un baretto a
chiacchierare con chi fosse stato presente lì in quel momento (ne avessi visto
uno, di bar, lungo la strada!), decido che avrei dato retta al prossimo che mi
avesse urlato di fermarmi; infatti, lungo il percorso, in molti, seduti su una
sedia appena fuori dalla loro abitazione, mi invitavano ad avvicinarmi,
probabilmente incuriositi dal mio passare.
Il prossimo, in quel caso, si
chiamava Kamir e stava lì seduto, intento a sorseggiare una bevanda biancastra
assieme ai propri amici e parenti.Vedendomi,
mi invita a sedermi, mi offre un bicchiere di quella bevanda (che ho scoperto
dopo essere vino di palma) e inizia a chiedermi da dove vengo, cosa faccio,
etc. Quando gli dico che sono un volontario di Villaggio Fraternité, mi dice di
conoscerlo bene e che vorrebbe portare lì i suoi figli, perché ha sentito dire
che, in quella scuola, i bambini sono ben seguiti ed escono preparati. Allora
gli dico: “Beh, dai, allora vai e iscrivi i tuoi figli!”. Nella sua faccia,
leggo scritto “povero ingenuo” a caratteri cubitali. Mi sorride, con il braccio
disegna un arco a indicare tutto il villaggio che ci circonda e mi fa: “Qui
mica ce ne ho uno o due; uno dei pulmini che avete lo riempirei solo io.
Guardati intorno e vedrai figli miei ovunque!”.
Con
questo, dopo i doverosi saluti e la promessa di rivedersi a breve, ho preso di
nuovo la mia moto e me ne sono tornato a Villaggio, pensando, con un leggero
sorriso, a quanto certe cose possano essere diverse da un paese all’altro,
senza che tu te ne renda conto.
Flavio Boffi